Transmongolica

Siberia

Non volevo dormire in un ostello, ne’ in una pensione. Volevo entrare in una casa siberiana per vedere com’erano i muri, i gabinetti, le tovagliette delle colazioni, le sedie. Ci ho messo quasi 4 mesi prima della partenza, poi le famiglie, disponibili ad ospitarmi, le avevo trovate. Avrei voluto poter rimanere in contatto, dopo le giornate passate con loro ma non e’ stato possibile: a volte infatti i confini sono troppo alti, le distanze troppo ampie e nemmeno internet puo’ salvarci. Scrivere di loro sara’ il mio mondo di farli rivivere, ogni volta che qualcuno leggera’ di quando il linguaggio falliva, e quello che doveva esser detto, veniva invece trasmesso tramite gesti ed occhiate, e mezzi sorrisi.
La Siberia in fondo e’ stata per me rappresentata dalle loro sveglie a cucu’, dai loro letti coi materassi ortopedici talmente duri da farti sentire una aspirante fachira, e dalle loro brusche gentilezze.

Innanzitutto, io le citta’ siberiane me le immaginavo piccole ed invece ti arrivavano nei denti, vram! Gia’ alle stazioni, dove ti caricavi lo zaino in spalla, e dicevi saranno due passi, fino a casa loro, no? Non erano mai due passi. Stalin l’aveva volute cosi’: inquietanti ma funzionali scatoloni caduti dal cielo. Muri spessi e ben distribuiti per accomodare i bisogni forti e pratici dei Compagni. Colore dominante grigio perla, ma anche giallo patata bollita, e rosa tacchino moscio. Pochissimi fiori, e nessuna giostra o scivolo per i bambini, niente viali alberati dove potersi scambiare un bacio, e pochi bar dove prendersi una pausa dal vento della steppa. Qui la vita dev’essere come agevole come un lenzuolo di ghisa. Il dito di mille Lenin in bronzo e’ teso verso un futuro che non si e’ realizzato. Il suo spirito qui non arriva piu’, incastrato a Mosca, nella piramide funeraria della Piazza Rossa. Questi, i miei tetri pensieri nelle prime ore nella Terra che dorme.

La mia prima famiglia in Siberia. A prendermi in stazione a Perm, era venuto il loro autista. Piu’ che ansia, a me il suo fisico goffo ed enorme provocava un’immensa pena: come faceva a scrivere gli sms con delle mani larghe come pale eoliche? E soprattutto non poteva indossare camicie serie, con polsi rotondi come tubature di scolo? Aveva la faccia buona, che sembrava un’autostrada, ed i polpacci glabri. Ha alzato il mio zaino probabilmente con il mignolo. Peso specifico dello zaino: 23 chili. Davanti alla macchina, poi e’ successa una cosa straordinaria. Era un rumore sordo, all’inizio. Credevo che stessero disboscando qualche ettaro di terreno nei dintorni. Tenete presente che fino ad allora non ci eravamo detti nulla. A farci riconoscere era stato il cartello in russo ed in inglese con il mio nominativo, tenuto tra quelle mani gigantesche, sul binario del treno dove ero arrivata. Poi, appunto, la terra ha cominciato a tuonare. Aveva digerito. Non ho mai più sentito un rutto cosi’ forte in vita mia. Ho sgranato gli occhi, perche’ lui ha cominciato a ridere fortissimo. Ha messo in modo la macchina e ha cominciato a parlarmi, in russo. Era rassicurante capire una parola su 4324. Bar, piazza, palazzo, Lenin, Mosca. Ci siamo fermati, mi ha detto (credo) Scendi e mi ha portata in un bar, dove mi ha fatto conoscere due signori, con degli anelli d’oro con cui sarebbe stato plausibile saldare il debito pubblico di almeno 4 ex repubbliche sovietiche. Non ho mai capito chi fossero. Sorridevo. Sudavo, come al solito. Alla domanda Cosa vuoi bere, ho risposto Coca Cola, non perche’ ami questa bevanda, ma perche’ in un momento di un’assurdita’ quasi scenica e’ stata l’unica cosa liquida che ero riuscita a ricordare. La seconda opzione era vodka, ma non mi sembrava il caso.

D’improvviso, poi, si va. Via verso la mia prima famiglia siberiana. Eccolo, uno dei tanti scatoloni di cemento, 30 piani, costante elemento di quasi tutte le citta’ siberiane che ho visitato. L’ascensore, dentro, era color rosso fuoco, e una volta azionato, emetteva un suono simile al rutto proposto dal “mio” rubizzo autista. Non so come mi avevano immaginata. Forse con una pizza ed un mandolino in mano, ma avevano un bimbo di circa 4 anni, che, appena mi ha vista, e’ corso via urlando fallaandareviafallaandareviafallaandarevia. Marika e Ygor, i genitori, invece hanno sorriso, e dopo aver congedato il guidatore paonazzo, m’han fatto vedere la loro casa ed il terrazzo su cui facevano allegre grigliate al fresco clima della steppa. Lavoravano entrambi in banca, una posizione solida e certa mi diceva Marika, possenti spalle da ex stella del nuoto. Mi piaceva guardarli insieme, innamorati in una parte di mondo dura e cruda. Ygor mi dava un passaggio ogni mattina verso la sua filiale, e mi raccontava di Perm, delle fabbriche ormai decadute, dell’inverno rigido come un righello nei denti, della figlia maggiore che era a studiare chimica in un’universita’ lontana. Non ho mai chiesto come facevano ad avere un autista, ne’ se quello era il loro guidatore. Ci fanno credere che siamo diversi in questo mondo, che e’ difficile venirsi incontro, mentre per me e’ stato semplice stare da loro, naturale, perche’ non c’erano fronzoli: c’erano gli asciugamani puliti in bagno, la mia camera era calda, e color cielo, e mi hanno regalato un paio di ciabatte, quando sono partita, ti serviranno sul treno.

A Krasnoyarsk, la storia e’ stata un po’ diversa.
Ad aspettarmi in stazione non c’era nessuno. A casa della famiglia che mi avrebbe ospitata, ci sono arrivata trascinandomi lo zaino per strade piene di calcinacci e enormi boulevard agghindati da cartacce sporche e cartelloni pubblicitari smantellati. Poi e’ successa una cosa meravigliosa. Ha cominciato a piovere e da non so dove, e’ arrivata una donnina e mi ha dato un ombrello. E’ rimasta li’ con me, sotto quello scroscio, senza dire niente, e poi quando le ho mostrato il nome della via dove ero diretta mi ha presa per mano, e mi ha accompagnata. Soprattutto dopo certe bombe, e torri crollate, han provato a farci credere che gli altri siano un potenziale pericolo. Diteglielo che non funziona, con noi, ‘sta storia. Ero però davanti all’ennesimo grattacielo bigio, in una città dove una delle attrazioni principali era un palazzo incompiuto, la Nikon in mano, rigida e sgomenta, un muro a meta’. Era un posto brutale, talmente sgombro di bellezza da risultare insostenibile.

La seconda famiglia siberiana era strana. Forse non esisteva nemmeno davvero. L’unica con cui sono riuscita ad avere una conversazione base era la figlia maggiore: si era autodefinita giornalista ed io gia’ mi vedevo, a braccetto con la Lilli Gruber della steppa. Scriveva per un gazzettino della scuola invece, e mi cucinava delle colazioni assurde, tipo un uovo fritto (che non digerivo) ed una pera. Oppure un uovo fritto (che al secondo giorno nascondevo nel passeggino di una bambina piu’ piccola), ed una mela. Sono certa che ci fossero altri componenti, ma non li ho mai visti veramente. Vedevo le loro scarpe, tutte ammassate all’ingresso. Li vedevo ritratti nelle fotografie sfocate appoggiate nella stanza che mi avevano appioppato per la mia permanenza. Erano scatti lontani, sembravano tutti cimeli visivi degli anni 70. Insieme al Cristo sanguinante che pendeva sopra la mia testa, tutti questi occhi non mi facevano dormire. Le tubature della casa erano ritorte, stanche, i muri emettevano un rombo di tuono ogni volta che uno dei fantasmi si faceva una doccia. Ero costantemente inquieta in quella casa inscatolata al quindicesimo piano di uno dei palazzi piu’ fatiscenti della citta’ e quindi ho passato ore infreddolite in giro per Krasnoyarsk, a cercare inutilmente uno scatto delicato. Guardavo l’indice dell’ennesima statua di Lenin e speravo che mi indicasse una visuale piu’ morbida. Niente da fare.

I posti pero’ sono un po’ come le persone. E’ necessario non demordere. E’ necessario essere disposti a dare una seconda chance. La mia, a Krasnoyarsk, l’ho data a Irina, la gestrice di una bettola dove, per ripararmi dal vento e da quello che comunemente viene definito scazzo cosmico, mi sono rifugiata per pranzare.
«Sei la prima turista dell’anno, o forse della storia», mi ha detto ridendo. «Sicuramente sei la prima italiana che vediamo da quando e’ caduto il muro di Berlino.»
Non so se esagerava, non era importante dopotutto. A volte bisogna saperlo leggere nelle piccole cose, il buon cuore delle persone. Mi ha detto «lascia fare a me». E’ uscita dalla cucina dopo dieci minuti, con uno dei pranzi piu’ buoni che abbia mai assaggiato in vita mia. Non c’era nessun altro. Mi ha chiesto «ti dispiace se mi siedo con te?». Abbiamo pranzato insieme. Non poteva credere che avessi lasciato l’Europa per fare un viaggio in Siberia. Mi chiedeva di Venezia, e Londra, posti mitici per chi vive qui in mezzo al vento. Per una che non aveva visto un viaggiatore per circa 20 anni, parlava bene inglese ma ancora meglio tedesco. Avrei voluto farle una foto, ma mi ha detto «no, non ho avuto il tempo di truccarmi stamattina». Poi e’ arrivata altra gente, la chiamavano tutti per nome.
Il buon cuore, a volte, si vede nel fondo di un piatto di minestra.

 Vivere su un treno   Lago Baikal 

2 risposte a “Siberia”

  1. Vanessa!! I have just read your blog on Mongolia! Your photo’s are soooooooooooooo professional – you kept that son secret! Did you take all the photo’s or have you uploaded some? They are truly beautiful and I can’t believe how beautifully you write. You must know you are actually in the wrong job and you need to join the Telegraph as a travel writer, you write so poetically. Have you ever thought of doing travel journalism.

    Thank you so much for sharing this with us – it’s superb x

    Helen Logan

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