Ecuador

All you need is Ecuador

“All you need is Ecuador” consiglia uno degli slogan dell’Ufficio del Turismo. E in effetti, più mi ritrovo a scrivere di questo meraviglioso paese più mi rendo conto che mi ha lasciato tanto dentro, molto più di altre destinazioni. Negli anni, l’Ecuador rimane tra i viaggi più completi della mia vita.

Insieme alla Bolivia, ritorna spesso nelle mie risposte alla domanda: “Qual è il viaggio più bello che hai fatto?”, una domanda un po’ sciocca perché come si fa a scegliere, come puoi decidere quando la vita è un fiume e tutto cambia. Eppure, l’Ecuador riappare con costanza nei miei pensieri.

E allora il viaggio continua. Saliamo a Ingapirca.

Ingapirca

Arrivarci è un viaggio nel viaggio. Da Cuenca, la strada si arrampica tra colline e villaggi tra le pieghe verdi delle Ande.

Di questo sito archeologico, però, ricordo una cosa atroce, prima di tutte quelle belle: il freddo di notte. A circa 3300 metri s.l.m., ci fermiamo in una pensione disastrata e benché ci siano dei letti comodi e io dorma completamente vestita con tanto di scarpe e cappello, le temperature mi debellano le ossa e al mattino, al momento della partenza, mi sembra che mi sia passato addosso un camion. Senza colazione e con un discreto sforzo fisico oltre che mentale, sposto il camion dai miei pensieri, perché so d’aver di fronte a me una giornata speciale, un’occasione di viaggio unica.

Ingapirca – che in quechua significa “muro degli Inca” – è molto più di un insieme di pietre antiche. È un dialogo inciso nella roccia, un racconto di convivenza e resistenza. È un ponte tra mondi che sembrano lontani; eppure, si toccano: quello dei Cañari e quello degli Inca, appunto.

I Cañari, popolo originario di queste terre, veneravano la Luna. Gli Inca, arrivati più tardi, portavano con sé il culto del Sole. Due cosmologie diverse, due modi di leggere il cielo e la terra. Eppure, qui, si sono incontrati. Non senza conflitti, certo, perché gli Inca tentano di conquistare i Cañari in un primo momento. Non avendo successo, decidono quindi di vivere al loro fianco. Questo strano equilibrio si percepisce camminando tra le rovine: l’architettura Inca, precisa e geometrica, si fonde con quella più organica dei Cañari. Il risultato è una particolare armonia che parla di adattamento.

Il cuore del sito è il Tempio del Sole, costruito con pietre perfettamente incastrate, senza l’uso di malta. Un edificio ellittico, orientato con precisione astronomica: durante i solstizi, la luce del sole attraversava esattamente l’ingresso del tempio. Un dettaglio che racconta quanto profondamente civiltà (assai precedenti alla nostra pressoché inutile era) osservassero e comprendessero il cosmo.

Di Ingapirca, ricordo altre due cose. La prima è la nostra guida: teatrale, preparatissimo, a tratti divertente, esplosivo e sorridente come gli ecuadoregni. A riguardare i miei appunti di quel viaggio mentre metto insieme questo articolo, di una cosa mi pento: non essermi scritta il suo nome. Ci racconta tutto, ma proprio tutto di Ingapirca: da dove trovare i bagni, agli scavi, alle difficoltà di convivenza tra i Canari e gli Inca, ai suoi figli, al Chimborazo in lontananza. Tutto.

Ma soprattutto, ricordo la tomba al centro del sito: secondo alcune interpretazioni archeologiche e racconti locali, qui sono stati trovati resti umani di una figura femminile importante, forse una sacerdotessa o una regina, morta di cause naturali. Accanto a lei, sono stati trovati i resti di altre dieci persone. probabilmente servitori o accompagnatori rituali, che potrebbero essere morti volontariamente o per sacrificio rituale. Alcune teorie – sebbene non siano universalmente confermate – suggeriscono che abbiano assunto sostanze allucinogene o psicotrope come parte di un rituale funebre, una pratica non rara in alcune culture andine antiche, dove si credeva che i servitori dovessero accompagnare i nobili nell’aldilà. Li hanno trovati in posizione fetale, come accade in molte altre culture: solo così possono rinascere verso la Pachamama.

Chimborazo: il confine tra la terra e il cielo

Dopo aver lasciato Ingapirca, nel pomeriggio di quel giorno avevamo una grande, assurda idea: salire al Chimborazo. Beh, non proprio in cima, ma fatemi spiegare.

Questo vulcano è un colosso silenzioso che domina l’Ecuador centrale con la sua imponenza glaciale e la sua aura leggendaria. Questo gigante è il punto della Terra più vicino al sole. Più precisamente, sebbene non sia la montagna più alta in termini assoluti, la sua posizione sull’equatore lo rende il vertice più distante dal centro del pianeta. Con i suoi 6.268 metri sul livello del mare, il Chimborazo è anche il vulcano più alto dell’Ecuador e il re incontrastato della cosiddetta Avenida de los Volcanes. La sua cima è perennemente coperta da ghiacciai, che un tempo venivano “raccolti” dagli hieleros, uomini che trasportavano blocchi di ghiaccio fino ai mercati delle città costiere. Geologicamente, il Chimborazo è un stratovulcano andesitico-dacitico. Anche se non ha eruzioni storiche documentate, ha avuto almeno sette eruzioni negli ultimi 10.000 anni, l’ultima circa 1.400 anni fa. Questo lo rende tecnicamente ancora attivo, anche se oggi è considerato dormiente.

Salire sul Chimborazo è un’impresa che richiede preparazione, acclimatazione e rispetto. Le due capanne principali — Carrel (4.850 m) e Whymper (5.000 m) — sono i punti di partenza per chi vuole tentare la vetta. Come dicevo poco fa, quel pomeriggio avevamo un’idea: arrivare in jeep fino a 4386 metri s.l.m., e da lì, con calma e con i polmoni che probabilmente avrebbero preso fuoco, salire fino al Carrel. Beh, noi al Carrel non ci siamo mai arrivati: l’entrata a quest’ultima parte del gigante chiudeva alle 14. Ogni itinerario è solo un sussurro: viaggiare è accettare che la mappa si ridisegni a ogni passo. Arrivati alle 15, abbiamo fatto qualche foto lassù dove il cielo incontra la terra, e abbiamo proseguito per Baños de Agua Santa.

Baños de Agua Santa: le “giostre” e un po’ di meritato riposo  

A Baños de Agua Santa il tempo assume un altro ritmo: le strade sono vive, piene di bancarelle che vengono caramelle di canna da zucchero e artigianato locale. Una delle parti più interessanti di questo luogo è il mercato centrale: file di piccoli ristoranti cucinano pasti profumati e abbondanti per due dollari. Ci sediamo insieme a giovani locali e indigeni. Il cibo unisce il mondo, dove il cibo è disponibile.

Camminando per le sue strade, alzo lo sguardo e capisco davvero dove sono: il Tungurahua, spesso avvolto da una coltre di nebbia, veglia silenzioso su tutto. E sarà la presenza del vulcano, intorno a Baños de Agua Santa si percepisce anche un’altra cosa: l’adrenalina delle “giostre”. Baños è infatti il posto dove ti ritrovi a lanciarti con una zip-line sopra una gola profonda, o a dondolarti sull’altalena della Casa del Árbol, con il vuoto sotto i piedi e il cielo negli occhi. Qui i più forti superano i propri limiti. Io non faccio parte di questo gruppo: mi limito a guardare i viaggiatori locali che vengono qui a lanciarsi nel vuoto.

L’acqua, però, è la vera anima di Baños come dice il suo nome. Scorre ovunque: dalle cascate impetuose come il Pailón del Diablo, che ti ruggisce addosso con la forza di mille tamburi, alle terme calde dove la gente del posto e i viaggiatori si immergono al tramonto, in cerca di guarigione e pace. Io e la mia compagna di viaggio, un po’ stanche dalle esperienze dei giorni precedenti, decidiamo di entrare alle terme: paghiamo 4.5 dollari, e ci buttiamo nelle pozze bollenti. La pelle diventa liscia, i muscoli vengano decontratti con un massaggio di un’ora per 20 dollari. La mente vola quassù dove si venera la Virgen de Agua Santa, protettrice dei viaggiatori e dei miracoli.

E l’Ecuador è un miracolo e noi siamo viaggiatori.

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