Armenia & Georgia ● A occhi spalancati
Il Caucaso arriva. L’Armenia, poi la Georgia. Cavalcando aquiloni. E confini. Quando tutta la vita è una bella canzone. Di stazione in stazione, e di folla in folla. Sulla cima di quel monte, vicino all’Arca di Noè, e qualche volta sogno, perchè voglio sognare. Davanti ad un’auto scassata, senza bandiere, piena di meloni e angurie. Correre in mezzo alla polvere in una fetta di mondo straziata da un supplizio che per alcuni ha preso il nome di genocidio, e per altri ha lo stesso senso del vento che corre e rompe.
Le Madonne nere, la pioggia dritta sulle mani, chi prega, chi canta, chi danza, chi inventa. E quei muri riempiti di draghi di San Giorgio, e quelle musiche ed i profumi di donne dalle gonne corte ma dal capo coperto. Una finestra gialla con delle monete appoggiate per dire “Dio, se ci sei proteggici, e salvaci, e non farci più fare gli stessi errori perchè noi siamo diventati proprio quegli errori”. Goshavank, e il deserto davanti ad una piccola chiesa in legno.
Le rughe delle mendicanti nel cimitero di Surp Grigor Lusavorich disseminato di croci, i petroglifi, Zorats Karer ed i suoi 204 menhir allineati ad altrettante costellazioni dalle quali, mi ritrovo a sperare, che quel qualcuno smetta finalmente di scuotere la testa, e ci ricordi come si fa a star bene qui sotto. Il pozzo di San Gregorio l’Illuminatore. Percorro i secoli e le storie di popoli che hanno alfabeti uncinati, e ogni sogno calpestato si rialza quasi per magia e mi ricorda ciò che veramente, nel profondo, io sono.
Ho quel passaporto che dice che sono italiana, ma il Caucaso tuona, nel ricordo ora, e nel momento allora, e mi fa capire che sono stata un po’ americana, australiana, sarajevita, mongola, siberiana. Lontana. La mia vita rimbomba lassù dal Caravanserraglio sul passo Selim dicendomi che il percorso di chi vive il viaggio è incorniciato dai visi di chi t’incontra e dai binari dei treni e dalle traiettorie degli aerei e delle navi. Tbilisi, e poi ancora Gori, la città di Stalin per arrivare ancora alla cattedrale di Svetiskhoveli, dove riposa la tunica di Gesù. Stalin e Gesù sulla stessa terra e negli stessi confini. Ad Uplistsikhe e poi a Vardzia incontro delle lucertole grasse e spavalde sotto quegli affreschi e accanto alla forza morale degli eremiti che appoggiano la fede su pietre dure ed appuntite. In mezzo alle Torri dello Svaneti ottengo per caso una conversazione con quello che scopro essere il pittore del paese. Mi parla in georgiano, e la sola parola che riesco a percepire in quei 15 minuti di monologo caucasico è “Einstein” che, tra le altre migliaia di cose a me incomprensibili, diceva anche che chi non è più capace di meravigliarsi è morto perchè ha gli occhi chiusi.
I miei occhi sono spalancati.
Volevo dirti che poco fa ho riaperto il tuo blog (che, detta tra noi, ogni tanto guardo perchè mi piacciono le tue storie e le tue foto) e mi ha fatto molto piacere leggere dell’altro caucaso (come lo chiama avventure). Con poche immagini sei riuscita a farmi “rifare” il viaggio e ad emozionarmi. Grazie.
Wow!!! che bello!!!
Non l’ho visto tutto, ma sicuramente non tralascerò nemmeno una riga
Grazie Vanessa!!!
un abbraccio
Lu
Questa foto, quella del vecchio che abbraccia il bambino non ha prezzo, devi assolutamente inviarla a qualche giornale, stupenda!!