Iran

Dov’è che vai?!

Se avessi chiesto indicazioni per raggiungere un fantomatico club del nudismo di Porta Palazzo, avrei senza dubbio ricevuto meno occhiate stralunate. Il problema è che non cercavo nudi figuri amanti dell’esibizionismo. Cercavo un banco che vendesse hijab. Punto. Alla fine, poi, ne ho convinta una di quelle donne velate. Mi ha guardata per un istante, e mi ha chiesto:
“Perché te ne serve uno?”.
“Perché vado in Iran”.
“Dov’è che vai?”.
“In Iran, vado in Iran”.
“Lo so io chi ti può aiutare. Vieni con me”.
Porta Palazzo è anche questo. Gentilezza. Com’è difficile, però, descrivere questa fetta della mia città. E’ il Bronx, vi diranno alcuni che il Bronx probabilmente non sanno nemmeno dov’è. E’ un’opportunità, vi diranno altri, carichi di sogni utopici. E’ qualcosa a metà strada, per me. A Porta Palazzo trovi tutto: dai cachi alle valigie, dallo zenzero agli spilli. Parlare d’integrazione, in questi giorni post-apocalisse nigeriana e parigina, mi fa sentire inadeguata. Non c’è niente d’intelligente da dire su un massacro. Ci si aspetta che tutti siano morti, che ci sia solo un gran silenzio, e che nessuno abbia più infine bisogno di nulla. Ecco cosa lascia dietro di sé, un massacro. Il nulla. La non-vita.
“Aiutala – questa vuole andare in Iran. Cerca un hijab”. In un batter d’occhio, si materializza davanti a me una serie pressoché infinita di “veli”: mille colori, diversi materiali, cotone, seta, qualcosa che mi sembra plastica e mi fa sudare solo a vederlo, col pizzo, senza il pizzo, veli che coprono il collo, veli che lo lasciano un po’ più scoperto, lunghi, corti, medi, insomma tutto. Confusa, guardo la Venditrice e lei capisce al volo: me ne serve uno semplice e veloce da indossare. Possibilmente leggero. “Ho quello che fa per te. Provati questo. Sta bene con i jeans”. Sollevata, lo indosso. Al contrario. Tipo che ho la faccia coperta e la nuca all’aria. Nel mentre, dal retro del banco, esce una montagna d’uomo che immagino sia il marito della Venditrice. Guarda me che cerco di girare l’hijab, guarda lei, riguarda me e comincia a ridere.
“Perché ti compri un velo?”.
“Perché vado in Iran”.
“Dove che vai?”.
“In Iran, vado in Iran”.
“Tu sei matta”, mi dice la Montagna di evidente origine nord-africana.
La Venditrice si avvicina con un altro pezzo di stoffa. “Questo è a prova di idiota”, pensa. E ha ragione. Solo se fossi lobotomizzata, non riuscirei ad indossare un hijab già fatto. Dovevo solo indossarlo dritto.
Quel velo a prova di scimmia, comunque, si rileverà essenziale. Nel mio viaggio in Persia, mi avrebbe fatto guadagnare la fiducia di molti, mi avrebbe fatto anche sudare e grattare il collo. Guardandolo, quel velo, in molte zone dell’Iran mi avrebbero detto che non era necessario per “noi” indossarne uno così (così come? Così da scemo, immagino). In altre città iraniane, invece, mi avrebbero descritta guardandomi come una “brava studentessa di teologia”. Io. Atea praticamente convinta, o agnostica insoddisfatta.
In Iran ci siamo arrivati volando su un’Europa che amo e ringrazio per quello che ha fatto per me, finora. Dall’oblò del mio finestrino ho rivisto la Bosnia, e ho pensato a quanto tutto fosse stato così diverso nel 2011, quando Sarajevo mi ha stravolto il cuore. E poi Costantinopoli ed altri confini indecifrabili. Atterrando all’Aeroporto “Imam Khomeini” di Teheran, ho indossato quel velo in un sincronismo non pianificato, insieme alle altre mie splendide compagne di viaggio. Da sotto quel velo, poi, nei miei giorni iraniani avrei pensato più e più volte a come mi sentivo: ero io ma ero diversa, oppure ero sempre la stessa? Il velo, in questo viaggio, sarebbe diventato una metafora del Viaggio: quando tracci un nuovo itinerario sul mondo, sei tu sempre, ma anche qualcos’altro. Una volta tornata in Italia, poi, quasi tutti mi avrebbero chiesto di quel pezzo di stoffa: ma hai dovuto indossarlo tutto il tempo? E loro? Ed il burqa? Posso solo dire questo: era necessario indossarlo. Punto. Non sono nessuno per dire che un velo sia giusto o sbagliato. In Iran, è necessario averlo in testa, almeno quando si è all’aria aperta. Le cose forse cambiano quando si è protetti dalle mura familiari. In alcuni luoghi, certo, ho visto più ciocche di capelli che in altri. Da lì sotto, ho guardato le persone osservare noi che osservavamo loro, come in un infinito gioco di specchi: guardarci, in alcuni casi, come se non avessero mai incontrato nessuno che non fosse iraniano. Forse era così. Come siamo, noi, negli occhi degli altri? Buffi? Goffi? Affascinanti? E poi: c’è davvero una marea di differenze a separarci? Quando viaggi metti costantemente in dubbio te stessa. Le fondamenta che ti fornisce la società in cui ti capita di nascere, tremano. Viaggiando rinasci, rivaluti, rimetti in gioco tutto, ricostruisci, ritrovi energia. Da sotto quel velo ho sudato come un’anguilla impanata e ho imprecato, ma porto soprattutto come me un ricordo: i sorrisi degli iraniani. Li ho sentiti regolarmente, fissandone gli occhi splendidi, e fermandomi quanto possibile a parlare con loro. “Come mai siete qui?”, “Cosa dicono di noi, dell’Iran, fuori da qui?”, “Dite a tutti che noi non siamo come ci disegnano”. E lì ti rendi conto che, prima o poi, tutte le nazionalità, hanno pronunciato quelle benedette domande: non siamo tutti dei mafiosi, degli invasati, dei corrotti, degli assassini, dei terroristi, dei drogati. Anzi – la maggior parte di chi cammina su questa terra vuol solo una cosa: essere in pace. Essere amata. Lasciare un segno del suo passaggio sul mondo, coi figli. Anche alla fine del globo, sono certa, le persone normali, comuni nel senso positivo del termine, credono a divinità amorevoli, amano i propri bambini, si addormentano sperando in sogni leggeri, gioiscono del sole o delle piogge a seconda delle latitudini o delle stagioni. Vogliono solo essere lasciate in pace. Ed in questo, gli Iraniani non sono diversi dagli altri. Anzi.

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