Liverpool
Let it be, o vent’anni fa
A volte capita di arrivare in una città e di sentirti a tuo agio immediatamente, anche se non ci sei mai stato prima. Succede dove meno te l’aspetti, in luoghi che non potrebbero essere più differenti dalle tue strade quotidiane. Eppure, capita: questa sensazione di famigliarità ti si appoggia addosso, e ti chiedi come sia potuto accadere proprio qui.
A Liverpool, questo benessere da viaggio che ti fa sorridere automaticamente non appena te ne accorgi all’aeroporto John Lennon (https://www.liverpoolairport.com/): agli arrivi, dopo un volo di due ore su un economicissimo Ryanair senza infamia e senza gloria da Malpensa, ho scambiato due chiacchiere con una ragazza bergamasca, 18 anni, alla sua prima grande avventura “nel mondo della lingua inglese”.
Anche io, esattamente alla sua età, partivo per un’esperienza simile verso l’Irlanda. Forse la serenità che sento è data dal fatto che mi sembra di conoscerla quella sua gioia un po’ inconsapevole, quella libertà che sta per arrivarle, e che vent’anni fa mi avrebbe spinta verso il mondo. Il tempo trascorso svanisce.
Mi chiede se mi piacerebbe avere di nuovo 18 anni, e dico di no, le dico che questi anni che in fondo ci separano sono stati necessari, bui, luminosi, ma soprattutto sono stati intrecciati a viaggi che nemmeno lontanamente avrei potuto immaginare quell’agosto del 1998. Le dico che per questo, per tutta questa strada, non li cambierei per nulla al mondo.
Ci salutiamo davanti al bus che mi porta nel centro di Liverpool (Stazione di Liverpool One: https://www.liverpool-one.com/plan-your-visit/getting-here/journey-planner/) e mentre ci abbracciamo mi fa una domanda che non mi fa mai nessuno: “Hai qualche consiglio da darmi?”. Vorrei dirle che sono quella che cerca risposte, che è sempre incerta, che più si viaggia nel mondo e meno capisci il mondo. Vorrei dirle che magari avrà una vita orrenda oppure una splendida, come si fa a sapere, come si fa a dare un consiglio con un bus che aspetta proprio te?
L’unica cosa che mi esce dalla bocca è: “Cerca di sbagliare, fai delle figuracce”. Mi guarda come se fossi deficiente, mi saluta e se ne va. Con quelle parole, avrei voluto dirle che le cose più memorabili nella vita, ma anche nello studio di un’altra lingua e nei viaggi, vengono fuori proprio dagli errori. Ci si perde sempre almeno una volta in ogni vacanza, ma poi ci si ritrova. A volte, si scambiano due termini nella lingua che si sta imparando, ma nessuno vi dimenticherà mai nella vostra classe se, che ne so, direte gummi (che in tedesco può anche voler dire profilattico) al posto di radiergummi (che significa gomma da cancellare).
All you need is love
L’accento e i modi di dire dei residenti di Liverpool sono stati altri due motivi che mi hanno fatta subito sentire felice: il loro inglese (che per i nerd di linguistica si chiama English Scouse – https://www.youtube.com/watch?v=R_C4PDSfQJA) mi ha ovviamente fatto battere il cuore ricordandomi l’inflessione tipica dei Beatles, che con le loro canzoni hanno abitato gran parte della mia vita, nel bene e nel male.
Inoltre, l’English Scouse utilizza continuamente nomignoli o appellativi come “love” e “pet” e “babe” e non poteva che riportarmi alla mia seconda casa, ovvero al modo di parlare degli irlandesi. La lingua è anche lo specchio di chi la usa, e come è successo 9 anni dall’altra parte del canale, anche qui gli abitanti sono stati accoglienti come i loro modi di dire: dai tifosi del Liverpool che mi salutano di fronte all’ostello (bellissimo) dove dormo (Sleep Eat Love hostel https://www.sleepeatlove.com/), al buttafuori che mi fa entrare al Cavern Pub, alla pastora che si ferma per due parole all’interno dell’immensa cattedrale anglicana (leggete questo articolo per rendervi conto), tutti ma proprio tutti mi hanno chiamata “love”.
E … love is all you need, no? (https://vimeo.com/214047758).
Here comes the sun
Tendiamo a identificare questo traballante Regno Unito in odore di Brexit con cieli grigi e basse temperature. Saranno di nuovo gli anni irlandesi a venirmi in aiuto, ma sinceramente nei miei viaggi ho smesso di preoccuparmi troppo del clima. Non lo posso cambiare, posso solo imprecare se piove o nevica.
A Liverpool non ho sudato ovviamente, però non sono nemmeno morta assiderata o lavata via da un monsone, tipico di queste zone dell’Inghilterra tra gennaio e maggio (sarcasmo ne abbiamo?).
Anzi! Il sole mi ha accompagnata per la maggior parte delle mie giornate: i gabbiani si alzano verso un cielo simil-blu ogni mattina quando apro la porta dell’ostello per uscire verso una nuova avventura; la nebbia sparisce quando, al porto, vedo partire i traghetti per l’Isola di Man che qui è vicinissima, ma non così prossima da poterla visitare in questo viaggio; mi devo mettere gli occhiali da sole quando esco dal Beatles Story, il museo dedicato completamente ai Fab Four (https://www.beatlesstory.com/).
Forse però il momento più luminoso di questi giorni beatlesiani è avvenuto … all’interno! All’interno della Liverpool Central Library! Ogni tanto sui giornali di viaggio si trovano quelle classifiche che gridano di biblioteche e librerie incredibili e dove trovarle, ma mai una volta che si parli di quelle considerate erroneamente minori: mai una volta che si racconti di quella di Bucarest (https://www.latitudeslife.com/2016/06/bucharest-carosello-della-luce-sogni-tutti-lettori/), e mai mai mai che si menzioni quella di Liverpool. Perché? Perché la stampa dedicata al viaggio racconta sempre – spesso – degli stessi luoghi? Perché ci ingolfano la testa delle stesse destinazioni?
Dentro alla biblioteca situata in William Brown Street, ho alzato automaticamente gli occhi verso l’alto: la luce entra attraverso pressoché infiniti giochi di vetri e acciaio, in una spirale enorme in cui si incontrano scale geometriche. C’è un silenzio vivo, gente che scrive e legge, e che va e viene con libri in mano, negli zaini: chi si trova lì, come in ogni biblioteca del mondo, è stato libero di alzare lo sguardo verso qualcosa che non conosceva, per capirlo, per usarlo in futuro, per diventare ancora più libero, perché quello che si impara non può essere portato via.
Vado su e giù per la struttura tre, quattro, cinque volte, e guardare tutti quei libri mi rassicura in un certo senso: la pazzia che sembra avere abitato il mondo là fuori, qui dentro sembra per lo meno sotto controllo. Arrivo alla Picton Reading Room, che è un’aula circolare dove ci sono una decina di divisori occupati da altrettante scrivanie: migliaia di edizioni rare, di manoscritti medievali, di libri unici dedicati a viaggi e alla storia naturale e a molto altro sono tutte qui che abbracciano quelli che se ne stanno seduti a imparare a quei tavoli.
Mi siedo a guardarli per un po’ e sento che tutta questa gente, di tutte le età, di tutte le estrazioni sociali e di nazioni lontane geograficamente anni luce tra loro, sta cercando una qualche soluzione in questi volumi.
Respiro. C’è speranza, qua dentro.