Ecuador

Quito

Tutte le partenze portano con sé emozioni specifiche, individuali, e irrepetibili. Quella per l’Ecuador, a novembre 2022, non è stata da meno. È stato un viaggio rimandato più volte: prima nel 2019, quando a poche settimane dall’inizio dell’avventura avevo dovuto cambiare destinazione perché la nazione era stata sconquassata da varie rivolte civili nei maggiori centri del Paese; poi ovviamente la pandemia che per anni ci aveva rubato la libertà di andare alla fine del mondo.

[Fonte: https://earthobservatory.nasa.gov/images/145654/three-decades-of-urban-expansion-in-quito]

L’emozione, quindi, è stata particolarmente grande quando sono atterrata a Quito dopo 35 ore dalla partenza da Malpensa, dopo una serie di voli cancellati per situazioni metereologiche assurde e problemi tecnici e divinità avverse. Quito me la ricordo bene dal finestrino: brillava come un’infinita costellazione, lassù a 2850 metri sul livello del mare, lunga 50 chilometri (sì, 50) ma larga solo 5 (sì, 5). In preda a un fuso orario macellaio, mentre l’aereo atterrava mi sembrava quasi di vedere i suoi 2 milioni di abitanti che tornavano a casa dopo l’intera giornata di lavoro, abbracciati a una serie incredibile di vulcani: Pichincha, Cayambe, Antisana, Cotopaxi e Chimborazo, per elencarne i cinque più famosi e più vicini alla capitale.

Mi ero completamente lasciata indietro un inizio dell’inverno caldo e anomalo a Torino, ma l’aria che mi ha accarezzato il viso una volta scesa dall’aereo era diversa. Era estate. Come molte zone dell’Ecuador, infatti, Quito ha solo due stagioni: quella umida e quella secca. La prima va da ottobre a maggio ed è l’estate nella capitale. La stagione secca, invece, va da giugno a settembre e viene paragonata all’inverno. Era buio pesto, inoltre, anche se il volo era atterrato intorno alle 20: grazie alla sua vicinanza all’equatore, gran parte dell’Ecuador – compresa Quito – ha 12 ore di luce solare tutto l’anno. Il sole sorge intorno sempre alle 6-6.30 del mattino e tramonta intorno alle 18-18.30 di sera.
Alla piccola pensione vicino all’aeroporto (Mariscal Sucre), ho notato solo le enormi palme altissime che si arrampicavano su per le scale, giocavano con il vento tiepido. Ero in un altro mondo, ma anche in un luogo così bello, ero stanchissima: i vari stop-over a Houston, a New Orleans, a Houston di nuovo, e infine a San Josè in Costa Rica, mi avevano demolita; quindi, quella sera sono andata direttamente a letto e ho dormito come un sasso.

La lussuria cattolica

La capitale è una città piena di bellezze architettoniche a dir poco sorprendenti. Grazie all’incredibile centro storico, nel 1978 Quito è stata la prima città patrimonio culturale dell’umanità a essere nominata dall’UNESCO. È piena di chiese cattoliche lussuriose, tutte opera dei colonizzatori spagnoli che, con la croce davanti al petto e la spada dietro alla schiena, approdarono sulle coste dell’Ecuador prima nel 1526 e poi, come conquistatori, nel 1532 quando la spedizione di Francisco Pizarro, prese il pieno controllo della nazione. Mentre esploro Quito, però, mi rendo conto che molti di questi luoghi di fede restano aperti solo quando ci sono le messe: mi ritrovo quindi a dover ritornare sui miei passi più volte durante i giorni che ho passato nella capitale all’inizio e alla fine del viaggio, ma non importa perché ne vale la pena.

Tra le più sensuali, ricordo la Chiesa della Compañía de Jesús, considerata come l’apice del Barocco sudamericano: la particolarità che mi è rimasta più a mente è rappresentata dalle sue figure barocche geometriche, floreali, di frutta, e ghirlande, in legno di cedro, intagliate e ricoperte di foglia d’oro. Tra i suoi altari si possono ammirare le immagini dei fondatori e dei personaggi illustri delle comunità religiose, come Santo Domingo de Guzmán, San Agustín, Luis Gonzaga, e Ignacio de Loyola. Una delle opere che spiccano e che si vedono più spesso è il dipinto El Infierno: si tratta di una rappresentazione di quella che sarebbe la casa di Lucifero, che punisce i peccati capitali. Si dice che già all’inizio del XX secolo molte madri portassero i loro figli a vedere il dipinto, affinché sapessero dove sarebbero finiti se non avessero obbedito e non avessero rispettato i comandamenti cattolici. La chiesa è onirica e labirintica nei miei ricordi (non si possono fare foto!) e paradossalmente ha un qualcosa di moresco e benché ci abbia passato un bel po’ di tempo, mi risulta impossibile annotare sul mio taccuino tutti i dettagli della sua architettura che mi ricorda più una moschea che una chiesa cattolica.

Il mondo – per ora – non dovrebbe finire

Un’altra struttura da raccontare è la Basilica del Voto Nacional, la più grande chiesa neogotica di tutto il Sud America. È enorme e mentre faccio qualche foto prima di entrare, mi rendo conto del perché la Basilica venga spesso associata alla Paura (miedo, in spagnolo): sembra uno scheletro bianco, infinito, mentre i fedeli sono piccoli quaggiù mentre pregano. La facciata esterna è anche un’esperienza sorprendente perché è carica di gargoyle che potrebbero sembrare più familiari delle creature fantastiche grottesche che normalmente adornano le facciate di chiese e cattedrali in Europa: rappresentano infatti tutti animali endemici dell’Ecuador, tra cui iguane, tartarughe, armadilli e condor, e non dragoni o mostriciattoli.

Dopo aver pagato il biglietto d’ingresso, prendo parte a una visita guidata in cui, uno studente dell’Accademia delle Belle Arti di Quito inizia le sue spiegazioni con la leggenda che aleggia sulla Basilica: il mondo finirà se la sua costruzione verrà ufficialmente completata. Come spesso accade in Sud America, le leggende si fondono con le realtà politiche e le traversie delle nazioni: nel 1883, padre Julio Matovelle (sacerdote, avvocato, poeta e scrittore nato a Cuenca) iniziò a raccogliere consensi per la costruzione di un’imponente basilica nel cuore di Quito. Il presidente si schierò a favore del progetto e il Congresso stanziò 12.000 pesos per la sua realizzazione. Papa Leone XIII approvò la costruzione nel 1887 e l’architetto francese Émile Tarlier fu chiamato a progettare la chiesa. Tarlier, ispirato dalle cattedrali di Notre Dame e Bourges, iniziò i suoi progetti nel 1890. Finalmente, il 10 luglio 1892, fu posta la prima pietra. La prima messa e il primo suono delle campane ebbero luogo nel 1924.

Papa Giovanni Paolo II benedisse poi la chiesa nel 1985, che fu consacrata (ma mai ufficialmente inaugurata!) nel 1988 a più di un secolo di distanza dalla sua concezione. In varie parti della Basilica mancano ancora oggi degli elementi, come a simboleggiare il suo continuo divenire: all’ingresso principale, ad esempio, non sono mai state apposte delle statue ad accogliere i fedeli. Con le leggende non si scherza.

La Madonna con le Ali

La Virgen de el Panecillo si intravede per magia nel rosone principale della Basilica: anche in questo caso, si racconta che non sia stata una soluzione architettonica premeditata e programmata da chi ha costruito questa meraviglia. La Virgen si erge su una collina a forma di pagnotta (da qui il nome) nel centro di Quito, visibile da quasi tutta la città. Negli Anni Cinquanta, le autorità locali e i leader religiosi guardavano El Panecillo e tutti erano d’accordo che la spoglia collina fosse il luogo perfetto per erigere una statua religiosa. Dopo anni passati a fissare la collina e a discutere su cosa collocarvi esattamente, alla fine si sono riusciti ad accordare su un concetto: la statua sarebbe stata una replica molto più grande della Vergine di Quito, nota anche come Vergine dell’Apocalisse, Vergine alata di Quito o Vergine danzante, una scultura lignea alta poco più di 30 centimetri creata da Bernardo de Legarda nel 1734. Questa statua molto amata era un gioiello della Scuola d’Arte di Quito ed era venerata dai fedeli della città.

Il progetto venne formalizzato nel 1969 e la costruzione della base in cemento iniziò nel 1971. Il completamento del solo basamento richiese tre anni, in gran parte a causa dei contrattempi finanziari causati dal costoso rivestimento in pietra vulcanica scelto per coprire il cemento. Per la statua, il comitato si rivolse allo scultore spagnolo Agustín de la Herrán Matorras. Dal suo studio di Madrid, lo scultore progettò e costruì una replica alta più di 40 metri della Vergine alata, utilizzando 7.400 pezzi di alluminio, con ogni pezzo chiaramente numerato. La statua è stata poi smontata, spedita in Ecuador e ricomposta sulla base di cemento. L’inaugurazione è avvenuta nel 1975 e questa volta non sembra aver portato con sé nessuna leggenda sulla fine del mondo.

Ma. C’è un ma, ovviamente. La Madonna di solito non ha le ali, giusto? Il particolare delle ali, che non si era mai visto in nessuna Vergine creata prima, è dovuto al pensiero di Legarda secondo il quale, se non le avesse messe, i suoi santi non avrebbero potuto raggiungere il cielo.

La Calle de La Ronda

Oltre alle chiese e alle Madonne che volano, una delle strade più emozionanti di Quito è La Calle La Ronda.

La storia di questa strada risale al 1400, quando si racconta fosse un sentiero Inca. I coloni spagnoli ristrutturarono poi la strada nel XVIII secolo e all’inizio del 1900 divenne il luogo di ritrovo preferito di artisti, poeti e musicisti. Anche se è passato quasi un anno da quando sono andata a passeggiare lungo la Calle, mi vengono ancora in mente le colorate case di costruzione spagnola che si incontrano lungo la strada e i balconi in ferro battuto ornati di fiori colorati.

Ricordo anche di aver incontrato due ragazzi incaricati dal Comune per completare il censimento e poi di essermi sporta all’interno delle porte per vedere una serie di cortili che sembravano usciti da un dipinto. Lungo La Ronda, ci sono anche diversi cartelli informativi che spiegano la storia di alcuni edifici: tra questi edifici c’è El Murcielagario (Casa del pipistrello), un bar sotterraneo segreto frequentato da musicisti negli anni Trenta. Nel corso del tempo, nelle vecchie case si sono insediati laboratori artigianali e gallerie: cioccolatieri, modiste, argentieri e costruttori di strumenti musicali esercitano qui il loro mestiere. I suoni della musica dal vivo si diffondono da bar dai colori vivaci e discutibili.

Gli aromi delle prelibatezze locali, come la quesadilla fresca (una tortilla di farina o di mais ripiena di formaggio) e il profumo del canelazo (una bevanda calda a base di frutta speziata e rum), vanno a riempire le narici dei viaggiatori che hanno la fortuna di arrivare qui. I bambini giocano a hopscotch (il gioco della campana) e a El Sapo (il rospo), che consiste nel lanciare monete nella bocca di un rospo di ottone. In fondo a La Ronda, mi fermo a un ristorantino che offre l’amuerzos, la tipica combinazione del pranzo. Con 3-4 dollari (sì, dollari americani, valuta ufficiale dell’Ecuador a novembre 2022), posso mangiare una zuppa di patate, avocado e coriandolo, e un secondo piatto – spesso di carne: secho de chivo ovvero agnello, churrasco ovvero bovino grigliato con due uova fritte e molto altro. Anche questa volta non rimarrò a bocca asciutta!

Sacro e profano, bellezza e durezza

Nei giorni che passo a Quito, oltre alla bellezza, mi rendo conto velocemente di quanto complessa sia la vita di tutti i giorni nell’Ecuador continentale, soprattutto se paragonata a quella di chi abita invece alle Isole Galapagos. In Plaza de la Independencia, ad esempio, mi fermo a fotografare una serie di lustrascarpe, alcuni ufficiali e alcuni improvvisati, ma tutti uomini. Se chiudo gli occhi, mi sembra ancora di sentire il rumore delle spazzole che le loro mani stanche facevano scorrere sulle calzature di quanti si potevano permettere un vezzo che mi sembra così fuori dal tempo nella mia Europa, così sbagliato in termini etici. Leggono i giornali questi signorotti locali, mentre le schiene curve degli sciuscià (il termine deriva dall’inglese shoe-shine) si muovono quasi in concerto, su e giù, destra sinistra, senza sosta.

Mentre prendo un caffè ad un bar della piazza, uno dei lustrascarpe si avvicina al tavolo accanto al mio dove due enormi turisti tedeschi hanno lasciato degli avanzi poco prima. Senza guardarmi negli occhi, il ragazzo allunga la mano e mangia quel poco che era rimasto del loro grasso pasto. Alla sera mentre torno in albergo, un bambino aspira colla da un sacchetto. Se ne sta seduto su una scala colorata, con quegli occhi senza vita: era dai tempi di Bucarest e Mosca che non incontravo un disagio sociale e una disperazione sociale come questa. In un quartiere parallelo a quello dove si erge la Basilica del Voto Nacional, vengo fermata dalla polizia che mi consiglia di mettere lo zaino davanti mentre salgo su per una via piena di prostitute verso l’Infinita chiesa della Fine del Mondo.

Vicino all’arco della Porta de la Reina, in pieno centro, incontro una ragazza con un paio di capre.

Ma Quito è molto di più, oltre alla violenza della povertà. Onnipresente, annuso profumo di Palo Santo, il che crea una specie di continuum tra il Sacro e il Profano, tipico di questa parte di mondo che amo con tutta me stessa. La convivenza tra la scienza e l’occulto si manifesta anche nella Piazza del Teatro principale (chiuso) dove si alternano centri medici e dentisti a negozi e centri esoterici che curano qualsiasi malanno della mente e del corpo.

In Ecuador, come in altre nazioni del Sud America, esiste poi anche una coabitazione tra fede cattolica e sciamanesimo: davanti all’ingresso della Chiesa di San Francesco, una donna dall’età indefinita vende bamboline voodoo contro il Male che possono essere acquistate solo dalle donne. Sono bianche, nere, e rosse, e hanno una struttura semplice con due occhi e il resto del corpo informe, come quello di un fantasma.

E ancora: pubblicità di curanderos tappezzano i muri e gli incroci della città, por que en le guerra y en el amor todo se vale, dice una di questi reclame. Curano l’enfermedad , ovvero la malattia che rappresenta un disequilibrio per il quale non viene semplicemente curato il sintomo, ma si tiene conto dell’interezza del contesto naturale, sociale e fisico nel quale il disagio si presenta: amori impossibili, espanto e susto (panico, shock, terrore), empacho (blocco intestinale); mal de ojo (occhio del diavolo, che si manifesta quando una persona osserva con eccessiva ammirazione o gelosia un soggetto più debole, quale per es., un bambino), e mollera caida (l’affossamento della fontanella nei bambini), e molto altro.

Ma c’è qualcos’altro

Ma già dai primi giorni a Quito mi rendo conto che c’è di più, che c’è già qualcosa che mi farà amare l’Ecuador. Ci sono gli ecuadoregni. Incrollabilmente positivi, non sembrano avere bisogno di molta persuasione per entusiasmarsi e accoglierti. Ecco: l’accoglienza è stata, già dai tempi della Bolivia, uno dei motivi principali per cui mi sento molto vicina a questa parte di mondo.

Sono sicura di non essere la sola ad amare segretamente il fatto di essere chiamata princesa o mi vida quando faccio qualcosa di semplice come comprare la spesa da una persona piuttosto gentile. E poi i rumori di Quito: tre cani sul balcone che ululano; due venditori di frutta e verdura che gridano i prezzi di avocado, uova, mango con un tono e un ringhio che non sono ancora sicura fossero umani; gli ambulanti che cantano e i megafoni che sono usati per fare capire al mondo il proprio punto di vista. Poi c’è la musica.

L’amore del Sud America per la musica ad alto volume, ad alto ritmo, probabilmente piuttosto fastidiosa se la sentissi nella mia educatissima Torino, suonata ovunque: sui taxi e sugli autobus locali, sulle bancarelle, nelle mani di giovani uomini che tengono in mano i loro telefoni cellulari.

Per tutto questo, e per molto altro di cui scriverò (spero) presto, non penso che l’Ecuador lascerà la mia mente e il mio cuore per molto tempo.

 Cartoline dall’Ecuador continentale 

2 risposte a “Quito”

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