Giappone

Persa in Giappone

Ogni viaggio è un’entità a sé stante. Ogni percorso, vicino o lontano che sia, su questo mappamondo ci riempie di esperienze e incontri che non sono replicabili altrove. Noi stessi non siamo replicabili altrove, altrimenti.

All’interno di ogni viaggio, poi, ci sono momenti che restano attaccati al cuore e infissi nella memoria più a lungo di altri. Le motivazioni della loro permanenza sono variabili e personali, e a volte inspiegabili.

A ripensarci dopo così tanti mesi, di alcuni luoghi del Giappone non mi sembra invece di ricordare nulla.

Le giornate nelle sue immense città assomigliano ora nella mia memoria a estesi timelapse in cui io mi ritrovo paradossalmente immobile e pressoché incapace di comprendere ciò che mi sta succedendo intorno. Se rifletto su Tokyo, ad esempio, ho la sensazione spiacevole che qualcuno mi abbia infilato un imbuto in gola e non abbia smesso di spingere giù cibo senza sapore per ore e ore.

Sono certa che si tratti di una percezione distorta ed ingiustificata, ma ripensando alla capitale del Giappone provo ancora oggi un profondo estraniamento che non ho mai sentito altrove nel mondo, nemmeno in altre megalopoli, nemmeno in altri paesi esponenzialmente più esotici, più strani, definiteli voi come preferite.

Per molti luoghi in Giappone non ho provato nulla: non sono stata in luna di miele con questa nazione e l’eccitazione tipica che ho sentito regolarmente nella stragrande maggioranza dei paesi che ho visitato, qui ha preso la forma dell’alienazione più dura.

Sono certa che in parte questa frustrazione sia dovuta al fatto che in Giappone non sono riuscita a relazionarmi realmente con nessuno: non è colpa di nessuno, anzi non è una questione di colpa. Venti giorni non sono nulla se si vuole provare a iniziare a comprendere una nazione dalla storia complessa come questa.

Ciononostante, a parte una sola bellissima ma rapida eccezione, durante il mio viaggio non ho mai scambiato più di 4 parole con un residente: io non conosco il giapponese e moltissime persone – anche nelle grandi città – non parlano inglese. Questa distanza però è andata oltre il solito teatrino delle lingue.

A Tokyo, ad esempio, in una città in perpetuo movimento dove vivono più di 14 milioni di persone, il distanziamento tra la gente è immenso: ho visto centinaia di individui mangiare da soli, incollati ad uno schermo e ho incrociato migliaia di pendolari sulla metro assorbiti da un videogioco.

Nelle loro orecchie mi è sembrato di sentire suoni e voci che potevano ascoltare soltanto loro. Eravamo gomito a gomito, ma mi sono sembrati talmente lontani da diventare irraggiungibili. Io ero lì, ma loro non mi vedevano. Io li osservavo, ma è come se non ci fosse nessuno intorno a me.

Non c’è nessuna intenzione di giudizio da parte mia: questo articolo è invece un goffo tentativo di analisi.

Ho avuto l’impressione che la società giapponese fosse sottoposta, già dall’adolescenza, ad una fortissima pressione psicologica: il successo professionale e l’autorealizzazione sono i cardini prestabiliti della vita. Per arrivare ad ottenerli, le relazioni forse si sfaldano auto-semplificandosi all’infinito tramite azioni che si ripetono quasi meccanicamente (come il saluto all’ingresso di ogni negozio – irashai mase) mentre le persone cercano una via di fuga online?

In Giappone, ho provato uno shock culturale inaudito.

Mi sono cercata tante volte nelle vetrine di negozi carichi di rumori e suoni, negli schermi delle affollatissime sale gioco, nei vetri della metro: ho intravisto un riflesso che andava e veniva. Apparentemente, mi sono trovata in due mondi paralleli destinati a non incontrarsi mai pur essendo costantemente vicini, in cui la mia stessa identità si è persa.

O per lo meno, persa momentaneamente.

 Giappone   Koyasan, ovvero let it be 

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