Bosnia

Miss Sarajevo

Questa è una serie di brevi racconti di amore e di fiducia nel prossimo. Un’utopia in questi tempi disgreganti.

12 anni dopo
Dopo 12 anni, a giugno 2023 sono tornata a Sarajevo. La notte prima della partenza non riesco a dormire bene: sono positivamente agitata. Al di là di questa ultima notte a casa mi sembra che mi stia aspettando un’amica che non vedo da troppo tempo: troverò delle differenze? Come sarà cambiata? Come sarò cambiata io nei suoi confronti? Perché tutto evolve, il mondo è toccato da un continuo, assurdo e affascinante divenire, ma cambiamo anche noi come viaggiatori: rimuoviamo certi interessi, rimpiazziamo gli occhi con cui guardiamo quello che ci circonda, ci focalizziamo su nuovi elementi e ne tralasciamo altri che, anni prima, ci erano sembrati imperdibili.


Sarajevo si fa aspettare perché resto bloccata una notte a Francoforte. In una vita lavorativa precedente a questa, in quell’aeroporto ci passavo un paio di volte al mese, ma la terminologia dei ritardi non cambia mai: “motivi tecnici”. Ma poi arriva questa città che – inspiegabilmente – amo con tutta me stessa: la vedo prima dal finestrino dell’aereo e poi comincio a vedermela venire incontro mentre me ne sto seduta sul bus che da Butmir mi porta in mezz’ora in centro (biglietto 5 marchi – giugno 2023).

Per uno strano gioco di specchi, mi sembra di non essermene mai andata da qui: quelle casette appoggiate sulle colline che circondano Sarajevo mi sono stranamente familiari e non riesco a non pensare a come dev’essere stato allora durante l’assedio, e com’è invece ora la vita in questa storia che sento mia, ma che nemmeno lontanamente mi appartiene. Faccio dei ragionamenti assurdi mentre la gente sale e scende dal bus: è possibile pensare che le nostre anime siano in effetti capaci di attraversare le epoche e i confini? Perché, se ciò non è plausibile, ci sentiamo a casa in luoghi che non ci appartengono?

Jemal
A Sarajevo rimango una settimana: non ho organizzato nessuno spostamento al di fuori della capitale perché volevo godermela con cura. A 10 minuti a piedi dalla fontana di Sebilji, ho prenotato un piccolo appartamento. Mi fermo in un piccolo supermercato per prendere qualcosa per la colazione: per una volta, non ho fretta. Sono nel momento, non esiste nulla tranne il viavai delle persone che si incontrano nella Baščaršija. Da una delle tante moschee del centro storico, parte la chiamata alla preghiera del muezzin, si ricorre tra una zona e l’altra della città. Come si fa a spiegare una città come Sarajevo a chi non c’è mai stato?
All’appartamento, mi accoglie Jemal.
“Avrai fame, sarai stanca dopo tutta questa strada: ti ho lasciato un pazzo di baklava in frigo e delle fragole. Vedi, crescono nei miei vasi qui fuori”, mi dice in un tedesco altamente comprensibile. Un rito dell’accoglienza che si ripeterà per tutti i giorni che passerò a Sarajevo: Jemal ha più di settant’anni, ha lavorato nella Croce Rossa anche durante la guerra, e dalle sue azioni e dalle cicatrici che ha sul viso mi sembra che abbia capito molto tempo fa che la gentilezza viaggia più lontano delle atrocità. Mi lascerà anche cioccolato e pane appena cotto sulla finestra, e senza mai rompere la mia routine, ogni sera mi chiederà cosa ho visto nella sua città e cosa ho mangiato di buono. L’ultimo giorno prima di accompagnarmi in aeroporto, prenderemo un the insieme nel suo giardino pieno di rose, come due vecchi amici.

Eliana
Eliana è il mio pezzo di Italia a Sarajevo. È un’amica di un’amica. Avrebbe anche potuto dirmi di no, che non aveva tempo per me quando la contatto, perché in fondo siamo due estranee. Vive qui da tantissimi anni e qui ha cresciuto i suoi due splendidi figli che parlano 5 lingue correntemente e sono belli e intelligenti. Sua figlia mi accoglie regalandomi un disegno che ora se ne sta appeso nel mio bagno: ha disegnato delle giraffe blu e delle onde. Mi dice che le piacciono gli animali mentre me lo porge nel loro appartamento affacciato sulla Miljacka.

Guardo questa famiglia in cui si intrecciano lingue, culture e tradizioni, e penso immediatamente a Ivo Andrić, cantore della multiculturalità per Il ponte sulla Drina, dove racconta la convivenza secolare di musulmani, ortodossi e cattolici nella Bosnia della dominazione ottomana dal 1500 fino alla Prima Guerra Mondiale.

Mi viene immediatamente in mente la scultura di Francesco Perilli in Trg Oslobodenja (Piazza della Liberazione): la frase sotto quell’uomo che spezza il cerchio della cattiveria e del razzismo dice che “l’uomo multiculturale costruirà il mondo”. Una frase sconvolgente e quasi utopica nei nostri tempi dissocianti.

Il Ponte Vrbanja
Il giorno dopo, cammino lenta verso il ponte Vrbanja. Il 19 maggio 1993, qui, vengono uccisi Boško e Admira mentre cercano di fuggire all’odio etnico che aveva lacerato Sarajevo, assediata e divenuta nel frattempo una macelleria. Admira Ismic era una ragazza musulmana di 25 anni. Boško Brkic era il suo fidanzato serbo ortodosso. 25 colpi sparati dai cecchini serbi appostati sulle montagne circostanti Sarajevo, durante l’assedio della città, pongono fine alle loro giovani vite. I loro corpi rimangono stretti l’uno all’altro, a terra, per otto giorni. Non c’è una lapide che ricorda a tutti che l’amore è sempre più forte dell’odio: chiedo in giro la ragione di questa mancanza, e nessuno sa darmi una risposta.

Ma il ponte Vrbanja è importante anche per altri motivi: qui perde la vita il giovane pacifista Moreno Locatelli. Il 3 ottobre 1993, con altri quattro pacifisti (Luigi Ceccato, padre Angelo Cavagna, Pier Luigi Ontanetti e Luca Berti), che con lui a Sarajevo stanno realizzando il progetto “Si vive una sola Pace”, Moreno sta attraversando il ponte Vrbanja sul torrente Miljacka che divide la città, per un’azione simbolica rivolta alle due parti in conflitto: vogliono deporre una corona di fiori sul luogo delle prime vittime civili di quella guerra (Suada Dilberović e Olga Sučić, uccise in quel luogo da un cecchino il 5 aprile ’92), e quindi offrire del pane ai soldati bosniaci e a quelli serbi, che si fronteggiano dalle sponde opposte del ponte; di questa piccola manifestazione sono state avvisate le milizie in conflitto.

Moreno viene raggiunto dai colpi di un cecchino, quando assieme ai suoi compagni sta ritornando sui suoi passi a seguito di alcune mitragliate di avvertimento. Muore dopo due interventi chirurgici, e le sue ultime parole furono «Stanno tutti bene?» riferendosi ai suoi compagni sul ponte.

Mentre me ne sto lì, in uno dei tanti luoghi tragici di Sarajevo, si avvicina Ivanka. Ha anche lei una settantina d’anni, come Jemal. È nata in Croazia, ma molto prima della guerra è partita per l’Africa dove per molto tempo ha fatto una serie incredibile di lavori: ha guidato gru in Sud Africa e poi ha fondato una compagnia di fast food. Da lì, si è poi trasferita in Nuova Zelanda dove ha ottenuto la cittadinanza, dove sono nati i suoi figli e dove ha divorziato da suo marito.

L’ultima volta che è stata a Sarajevo è stato in viaggio di nozze a 18 anni. “L’unica cosa che mi solleva è che i miei genitori siano morti prima della guerra: sarebbe stato un incubo perché anche la mia era una famiglia mista”, mi dice. Non le interessa la politica perché complica solo le cose. Finiamo per passare tutta la giornata insieme: andiamo a berci un caffè e poi ceniamo insieme e ci raccontiamo un po’ le nostre vite. È strano quanto sinceri si riesca a essere a volte solo con gli estranei. 

Sono cose che capitano
Passo i giorni girovagando per questa città. Faccio pause lunghissime a osservare il viavai della gente e dei viaggiatori e a bere il caffè come si beve qui: a Sarajevo, il caffè viene servito nella “džezva”, un pentolino di rame placcato con un lungo collo, insieme ad un bicchiere di acqua, ad alcune zollette di zucchero e a piccole gelatine alla rosa chiamate “lokum”. Un vero e proprio rito, non una cosa da turisti sfigati.


Decido di visitare il museo dei crimini contro l’umanità e del genocidio del 1992-1995. È ricco di materiale d’archivio e offre un approccio multidisciplinare alla conoscenza e alla ricerca degli eventi nel territorio della Bosnia-Erzegovina nel periodo 1992-1995: Sarajevo è stata sotto tiro per più di 1400 giorni, ottenendo così il tristissimo primato del più lungo assedio nel mondo moderno. Ogni giorno sulla città sono caduti in media 330 missili. Più di 18mila persone hanno perso la vita in quegli anni, e più di 300 mila sono rimaste ferite. Potrei continuare con altri dati, ma se mai passerete a Sarajevo, andate a visitare questo museo: è una prova atroce e atrofizzante di quanta poca memoria continuiamo ad avere nei confronti delle guerre e delle violenze (ne ho parlato anche in questo articolo all’inizio dell’estate 2023).


Per riprendermi un po’ da questa visita complessa, cammino lentamente lungo la Miljacka e mi fermo a guardare gli Acrobati. Queste statue furono appese sopra il fiume durante i primi mesi dell’assedio. Trasmettevano il messaggio che l’arte non poteva essere fermata, nemmeno in circostanze così orribili. Lo spirito umano e la libertà rappresentata dall’espressione artistica non potevano essere spezzati. Durante le migliaia di giorni di assedio, nei teatri di Sarajevo sono state rappresentate più di 40 opere, nonostante ogni giorno venissero sparati circa centinaia di missili sulla città. Sono un simbolo della resistenza dell’umanità, nonostante tutto, nonostante il caos.

Decido poi di partecipare a uno dei tanti free walking tours presenti ormai ovunque nel mondo: questa passeggiata dura più di tre ore e l’ho scelta perché è dedicata alle ferite che la guerra del 1992-1995 ha lasciato in giro per la città con un approfondimento su quanto sia cambiata Sarajevo negli ultimi anni (ho prenotato il tour con GuruWalk – chiedete di Neno come guida se possibile, è stato eccezionale).

Il tour finisce alle 17 e me ne torno con calma verso l’appartamento, ma all’ingresso della Baščaršija qualcuno mi tocca la spalla. Mi giro e mi trovo davanti due ragazzi tedeschi che mi dicono che ho lo zaino aperto. In poche parole, qualcuno mi ha preso il portafoglio. È la prima volta che mi succede qualcosa del genere in tutti i viaggi che ho fatto in giro per il mondo. Ci rimango male, ma non sono particolarmente scossa perché realizzo che dentro al portafoglio avevo “solo” 10€ e la mia carta d’identità. Potevo avere il passaporto (così difficile da recuperare in questi tempi in Italia!) e più soldi.

Vado direttamente alla stazione di polizia più vicina alla Baščaršija e faccio la denuncia: mi accoglie una poliziotta gentilissima che, in un inglese molto ballerino, prende la mia dichiarazione e mi dice che devo tornare domani mattina per ritirare i documenti firmati dal suo superiore. E così faccio, il mattino dopo, e poi mi dirigo all’Ambasciata Italiana a Sarajevo. Io in un’ambasciata all’estero non ci sono mai dovuta andare per fortuna, quindi quando suono al campanello non so come presentarmi e dico solo: “Sono cittadina italiana. Avrei bisogno di aiuto”. Come in un film, in modo un po’ drammatico quasi.

Mi aprono la porta e, mentre mi assiste con la pratica di denuncia, l’amministrativa mi sorride e mi dice: “Purtroppo sono cose che capitano ovunque, ma sappia che a Sarajevo spesso i documenti vengono ritrovati e riconsegnati qui nei nostri uffici. I sarajeviti sanno quanto importante è un documento, e quanto può essere difficile rifarlo da capo”.

La guardo storta, dall’alto del mio cinismo occidentale. 

Dopo aver espletato anche questa pratica, torno a girare per la città perché una cosa così non può, non deve rovinare questo viaggio che ho voluto e aspettato per tanto tempo. Pranzo con pochi euro al Buregdžinica Sač (Bravadžiluk mali 2): il profumo si muove come un gatto lungo tutta la Baščaršija e decido di seguirlo. Compro un pezzo di burek al formaggio e spinaci su mi appoggiano una crema leggera di panna acida. È succoso e caldo, ma con la pasta ancora croccante e fresca, realizzato in modo tradizionale e cotto sotto una campana di ferro. Mentre sono seduta fuori su uno dei tavolini pieni di gente, realizzo ancora una volta che viaggiare significa anche annusare e assaporare quello che mangia la gente del luogo.

Vado poi a visitare (da fuori, perché la struttura è chiusa al pubblico) la casa di Gospodić. Questo edificio fatiscente custodisce numerosi segreti e i suoi dettagli alimentano la mia immaginazione. Non si sa chi l’abbia costruita e per chi. Secondo la leggenda, la trama del romanzo “La signora” di Ivo Andrić è ambientata in questa casa. Secondo altre leggende cittadine, durante l’epoca austro-ungarica, nella casa viveva una bella ragazza con una visione del mondo più libera, che veniva visitata a tarda notte da importanti cittadini di Sarajevo.

La “Casa della signora”, come è anche conosciuta, è l’unico edificio dei Balcani dipinto con la lussuosa tecnica del “graffito”, che consiste nell’incidere disegni sull’intonaco. I motivi sono tratti dalla mitologia antica, così la dea della saggezza Minerva, il guerriero romano Perseo o Mercurio sono dipinti sul muro, mentre la nuova era è rappresentata da una giovane donna all’ombra della moderna illuminazione stradale. La casa è stata probabilmente costruita durante il periodo austro-ungarico, quando a Sarajevo ci fu un boom di attività edilizie e artigianali, accompagnato dall’adozione di nuove norme edilizie.

Me ne torno a casa in tarda serata. Jemal non c’è oggi, è andato a trovare una delle sue figlie; quindi, mi infilo a letto e spengo il telefono. Non posso sapere che, l’indomani mattina, quando lo riaccenderò, troverò un messaggio su Instagram da parte di un contatto sconosciuto: Alena.

Con la semplicità tipica delle buone azioni, Alena mi dice che suo figlio ha trovato il mio portafoglio. Anticipando i miei dubbi, mi dice che è una giornalista locale e che, se voglio, può mandarmi tutti i suoi documenti per confermarmi che non si tratta di una truffa. Ho le lacrime agli occhi mentre leggo i suoi messaggi. La bontà delle persone comuni continua stranamente a lasciarmi spiazzata.

Decidiamo di incontrarci alle 17 al Café Tito e quando ci vediamo, in mezzo ai carrarmati ormai dismessi, ci abbracciamo. Era una vita che non abbracciavo un estraneo, ma l’azione avviene in modo assolutamente naturale, come se ci conoscessimo da sempre. Alena parla un inglese a dir poco perfetto e subito tira fuori il mio portafoglio intatto dalla sua borsa. Mi presenta suo figlio che indossa la maglia di un giocatore di calcio che non conosco e mi dice: “Pensa che quando è tornata a casa con il portafoglio l’ho pure sgridato: pensavo che fosse andato a rovistare in mezzo alla spazzatura!”. Rimango attonita perché davvero non pensavo che l’avrei mai recuperato. Continuo solo a ringraziare sia lei che il piccolo e le porgo due pacchi di caffè che ho comprato in una delle tante caffetterie della città: non vuole accettarli all’inizio perché non è il caso, mi dice, perché i documenti sono importanti. La convinco alla fine, e ci sediamo insieme a tre suoi colleghi giornalisti: beviamo un paio di birre insieme fino al tramonto. Mi chiedono cosa si pensa di Sarajevo in Italia e non ho risposte logiche, perché in realtà io sono di parte, io amo la loro città da tantissimi anni. Mi sembra di conoscerli da un tempo infinito che trascende le lingue che parliamo e i nostri luoghi di nascita. Ci promettiamo che un giorno ci rivedremo da qualche parte nel mondo.

Siamo ancora in contatto, dopo tutti questi mesi.

Rientrando a casa, entro all’Hotel Hecco Deluxe che si trova proprio accanto alla Fiamma Eterna, dove la via pedonale Ferhadija incontra la via Marsala Tita. Tuttavia, l’ingresso è poco appariscente e facile da non notare: una volta entrata nell’edificio, prendo l’ascensore fino all’ottavo piano e poi salgo un altro piano per raggiungere il caffè. C’è tutta Sarajevo davanti a me da lassù. Via Ferhadija, alcuni grandi edifici risalenti all’epoca dell’Austria-Ungheria e le torri dei templi di diverse religioni: la chiesa cattolica, la chiesa ortodossa e numerose moschee. È da qui che si può vedere chiaramente quanto Sarajevo sia multiculturale e perché la città è spesso chiamata “la Gerusalemme europea”.

 Bosnia 

2 risposte a “Miss Sarajevo”

  1. Ho letto questo tuo splendido racconto, e mi sembrava di vivere quei momenti in giro per la città di Sarajevo.
    A volte duro e spietato per le atrocità del conflitto a volte toccante ed emozionante.
    complimenti Vanessa

    • Grazie mille caro lettore. Sarajevo è sempre stata così vicina e allo stesso così lontana, sia all’epoca dell’assedio che oggi. E’ rimasta comunque nel mio cuore e sono contenta che le mie parole ti abbiano portato fino là!

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